maʃ’gera

sasseto, massa di sassi, petraia; rovina di massi, frana; ragazza grassa. Anche margera. Maʃ’gera de ròbe – ciarpame, marame. Presso Agnedo si distende una grande frana del monte Lefre, detta le Maʃ’gere; tra i massi vi sono dei piccoli vigneti, detti anch’essi maʃ’gere, e maʃ’geròte. – Tuto te na maʃ’gera = tuto a ʃvoltolón. – 1555: Maceries longa (Telve); 1570: Masiera longa; 1593: alle Masiere (Scurelle); 1486: Laurentius de la Masiera de Savario; 1542: Antonius de la Masiera; 1552: le Massiere (Reg. Scur. I 38); 1588: Giacomo dalla Masiera; 1553: Josephus a Maceria (Morizzo I 319, II 19, 97, III 15 [35], I 304, II 89, 330). [I Valsug. 96].

Angelico Prati, I Valsuganotti (La gente d’una regione naturale), 96. Distruzione del borgo de Carén.
Dai fianchi del monte Lefre, presso Strigno, si diparte una frana grandiosa, la quale, coprendo anche un tratto del piano della valle, arriva sin quasi alla strada, che dall’Ospedale mena ad Agnedo. I massi, che la compongono, sono di una tinta scura, dovuta al tempo, e in gran parte sono assai grandi, alcuni anzi raggiungono la lunghezza di 10-15 metri. Forse il piú grande di essi sta dove termina la frana ed è detto Sasso del Can.
La frana è chiamata le Maʃgere (Maʃiere) e nella Valsugana il nome maʃgera, derivato dal latino macĕria, significa appunto «luogo pieno di sassi». Tra i macigni vi sono degli spazi liberi di terreno, che specialmente dagli abitanti di Agnedo, dapprincipio al certo con gran fatica, furono trasformati in piccoli vigneti, detti pur essi maʃgere e maʃgeròte.
Queste Maʃgere formano un paesaggio singolare e vario, e da esse si ammira la Valsugana in tutta la sua bellezza, coi suoi castelli in parte diroccati, coi suoi boschi di pioppi e di ontani, coi suoi villaggi distesi nel piano o arrampicati su per le colline.
È credenza comune che sotto la rovina di Lefre sia sepolto un antico paese, chiamato borgo de Carén.
Intorno alla improvvisa sua fine raccontano quanto segue.
Una volta venne a Careno un povero per chiedere la carità. Girò per tutto il paese, andò per ogni casa, ma nessuno volle dargli niente. Giunse finalmente sopra il paese in una casa abitata da una vedova con alcuni piccini. Al vecchio, che le domandava qualche cosa per ristorarsi, la povera donna rispose che gli avrebbe dato volentieri qualche cosa, ma che non aveva niente, che aveva messo nel foco due pietre, facendo credere ai suoi bambini che esse fossero due stiacciate da cocere. Il povero però insistette, si sedé e disse alla vedova di levare le pietre dal foco. Ella ubbidí e con sua grande sorpresa vi trovò due stiacciate. Il povero le chiese pure del vino. «Le botti sono vote – gli rispose essa – e vino non ne ò». «Va e attingine», soggiunse il vecchio. La donna andò e con sua maraviglia poté cavare da una botte del vino, che portò allo sconosciuto mendico. Questo le disse poi che durante la notte essa avrebbe udito un gran fracasso ma la consigliò di non moversi, che altrimenti le sarebbe avvenuto qualche cosa di male.
Il povero si allontanò ed ella andò coi bimbi a dormire.
A un tratto ella udí un rovinio tremendo. Dapprima si trattenne dal guardare, ma poi cedette alla curiosità e si affacciò alla finestra. Enormi massi rotolavano giú per la china del monte, che si era sfasciato, e una scheggia la colpí in un occhio, che rimase cieco.
La mattina tornò da lei il vecchio e la rimproverò di aver scordato il suo consiglio. Egli si unse un dito con la sua saliva, lo sfregò sull’occhio malato della vedova, che tosto risanò.
Careno, i cui abitanti avevano rifiutato la carità al povero vecchio, restò sepolto sotto la rovina, forché la casa della povera vedova, che fu salva.
Quel povero era Gesú.
Nella sua Guida (I p. 373-374) il Brentari riporta questa leggenda, che gli fu raccontata da un vecchio pastore, ma essa differisce parecchio da questa da me narrata. Cosí la riferisce: «Un povero vecchio saliva verso il paesello di Careno. Nessuno volle dargli ospitalità. Andò più in su, ed ebbe ricovero presso un eremita. – Verrò a letto con te, disse il pellegrino. – Non ò letto, dormo per terra, rispose l’eremita, – Guarda, il letto c’è: e il letto apparve. – Mangiamo la polenta. – Io non vivo che di radici d’erbe; non ò farina. – Guarda bene; farina ce n’è: e ce n’era. Mangiato che ebbero, andarono a dormire. – Bada, ammoni il pellegrino, qualsiasi susurro tu senta non muoverti, non ispaventarti. – A mezzanotte si sentì un fracasso diabolico; l’eremita si rattenne quanto poté; ma infine, vinto dalla curiosità, guardò fuori da un finestrino con un occhio, che fu subito colpito e rotto da una scaglia. Il monte era precipitato; ed un fiume di sassi, grandi come palazzi, precipitava giù per la china; ma giunto al cimitero lo rispettò, deviò, gli girò attorno, lasciando incolume anche la casetta dell’eremita, ove sorse la chiesetta di S. Vendemiano».

Angelico Prati, Dizionario Valsuganotto, Istituto per la collaborazione culturale Venezia – Roma, 1960 (prima edizione);

Angelico Prati, Dizionario Valsuganotto, Istituto per la collaborazione culturale Venezia – Roma, 1977 (ristampa anastatica);

Angelico Prati, I Valsuganotti (La gente d’una regione naturale) – Dizionario Valsuganotto. Ecomuseo della Valsugana – Ecomuseo del Lagorai, Croxarie, Litodelta, 2023.

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